Qualità. Un Totem dei nostri tempi.
(ovvero, cosa c’entriamo noi periti?)
di Umberto Arnulfo
Che cos’è la qualità? Chi di noi, come il sottoscritto, ha iniziato la propria attività lavorativa negli anni pre-globalizzazione risponderà di certo che la qualità è una caratteristica intrinseca di un prodotto (o, in senso lato, di una azione). Essa può essere buona o scadente, perfino pessima al limite, ma in genere al termine qualità si è sempre associato un significato positivo. Pertanto, dicendo nel linguaggio comune che un manufatto è “di qualità” si intende generalmente che si tratta di un oggetto ben realizzato, affidabile, di valore ecc.
Negli ultimi anni, specie con lo svilupparsi della tecnologia aeronautica, nucleare e poi dell’alta tecnologia in genere, il concetto di “qualità” ha subito una trasformazione radicale che ne ha col tempo snaturato e completamente stravolto il senso; o meglio, che ne ha ricondotto il senso al suo vero significato originale, intrinseco.
Infatti, la necessità di garantire in ogni istante la “tracciabilità” di un manufatto (in termini di genesi produttiva e/o di “vita” operativa) nonché quella di individuare in ogni istante (genesi e vita) i vari interventi svolti, gli esecutori materiali di tali interventi e gli ideatori/controllori degli stessi, ha portato alla redazione di specifiche operative che sono col tempo assurte alla dignità di specifica tecnica in un primo stadio e infine di vera e propria normativa, prima nazionale e poi internazionale.
L’impostazione tipicamente anglosassone della questione, unitamente ad una evidente e forse strumentale disinformazione dell’utente finale, ha portato una notevole confusione sul significato che oggi viene assunto, in ambito industriale, dal termine qualità. Anzi, riallacciandoci a quanto accennato nelle righe precedenti, si potrebbe dire che proprio grazie a quanto sopra il termine “qualità” si è riappropriato del proprio significato etimologico originale; ma questo la maggior parte degli utenti (e degli operatori) non lo sanno. Infatti la qualità non ha un significato di per sé positivo, ma può essere di volta in volta ottima, buona, mediocre, scadente, pessima e, in sostanza, assumere tutte le aggettivazioni che corrono dalla magnificenza al livello più infimo.
Nel caso della normativa di qualità avviene piu’ o meno lo stesso; un manufatto sarà prodotto “in qualità” non quando corrisponderà, ad esempio, a elevati requisiti di affidabilità, ma quando sarà stato prodotto secondo processi ben identificabili e rintracciabili nel tempo, e quando le sue caratteristiche finali corrisponderanno a requisiti che vengono stabiliti, verificati e garantiti dal costruttore stesso. Sulla base di ciò, pertanto, saranno considerati allo stesso modo prodotti “in qualità” sia manufatti di caratteristiche elevate ed altissima affidabilità, sia prodotti di scarse caratteristiche ed affidabilità, purchè entrambi siano stati realizzati in conformità a normative e specifiche tecniche interne, preventivamente codificate e certificate dal rispettivo costruttore. In parole povere, se io produco qualcosa di molto scadente, ma l’ho scritto e dichiarato prima nel mio manuale interno, il mio manufatto sarà stato prodotto “in qualità” al pari di un altro manufatto realizzato, per esempio, in conformità con le piu’ alte ed affidabili tecnologie e con materiali di primissimo livello.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda le materie prime e/o i semilavorati che vengono acquistati da una industria per la propria produzione; tali materie prime e/o semilavorati potranno avere indifferentemente caratteristiche elevate, mediocri, scadenti, ecc. Non importa, purchè il tutto sia conforme a quanto scritto nel manuale interno “di qualità”. Come dire, non importa che tu faccia una schifezza, purchè tu lo scriva….”. Questo, ovviamente, è un paradosso, ma non è molto lontano dalla verità. Infatti, a garantire ed imporre standard minimi di sicurezza, ad esempio, non sono i criteri di qualità, ma le norme internazionali e nazionali, che con il concetto di “qualità” sopra esposto hanno poco o nulla da spartire.
In ultimo, giova ricordare che la normativa di qualità prevede la non conformità di un manufatto (o di una materia prima, e/o di un semi-lavorato) e la gestione di tale non conformità. Il che vuol dire, in termini poveri, che se qualcosa non risponde inizialmente alle caratteristiche codificate è prevista l’adozione di quelle misure intese a ripristinarne la corrispondenza. (in pratica, per esempio, se una saldatura di un recipiente in pressione viene “fatta male”, questa potrà essere riparata purchè la riparazione venga effettuata secondo modalità codificate nei manuali interni operativi, e sempre che di tale riparazione venga conservata documentazione).
Questa lunga disquisizione introduttiva, peraltro forzatamente farraginosa ed incompleta, per affrontare una problematica che negli ultimi anni ha assunto una importanza sempre maggiore; la pretesa impossibilità di recuperare in modo soddisfacente beni e manufatti soggetti a sinistro e/o avaria.
Nella comune esperienza peritale, infatti, da un po’ di tempo veniamo in contatto con tale realtà relativamente nuova. Sempre piu’ spesso, infatti, ci troviamo in situazioni nelle quali il ricevitore/assicurato/danneggiato rifiuta qualsiasi ipotesi di riparazione e/o recupero del materiale coinvolto in una avaria, e questo proprio invocando il proprio “Sistema di Qualità”.
E così accade che un coil di acciaio zincato venga considerato totalmente inidoneo anche se interessato da bagnamento solo parziale, che una macchina utensile venga considerata non ripristinabile a nuovo anche se danneggiata solo in alcuni componenti, e che un manufatto elettronico venga rifiutato solo perché ha subito un contraccolpo senza peraltro presentare alcuna anomalia. Il tutto in nome del “Manuale interno di Qualità”.
Peraltro, se proviamo a chiedere tale manuale, vedremo quasi sempre che tali “condanne” non sono poi così categoriche e, in molti casi, neppure previste.
In effetti si tende a mascherare dietro pretese questioni di qualità tipologie che sono più simili al “danno temuto” che altro; ma sappiamo bene che il semplice danno temuto non è risarcibile.
In altri casi, l’impossibilità di recupero è conseguente alla scarsa volontà del danneggiato che, sapendo che il danno verrà risarcito dall’assicuratore, non ha intenzione di sobbarcarsi il fastidio del recupero della merce, e quindi ne decreta la totale non-conformità abbandonando il bene all’assicuratore.
Peraltro, giova ricordare, il Codice Civile stabilisce l’obbligo del danneggiato di contenere al minimo l’entità del danno, e pertanto tale attitudine si scontra con la legge. Inoltre, sempre da un punto di vista di procedura civile, il nostro codice non prevede la valutazione del danno sulla base della vendita del bene danneggiato (cosa invece comune nei paesi anglosassoni), ma richiede comunque la valutazione peritale dell’entità del danno, ed il giudizio quindi di congruità del valore recuperato mediante tale vendita.
Giova infatti ricordare che, procedendo alla vendita al meglio del manufatto e/o del bene danneggiato, quasi mai il danno verrà limitato al minimo; è comune esperienza che tale vendita infatti ne comporta automaticamente un deprezzamento notevole e sostanziale, quasi sempre ingiustificato in relazione allo stato attuale della merce. Solo a titolo di esempio, infatti, pensiamo ad una automobile di marca Caio (per non fare pubblicità); venduta dal concessionario di Caio la macchina ha il suo valore di listino, mentre se a venderla fossi io, ad esempio, la stessa macchina avrebbe un valore di molto inferiore, spesso al di sotto del 50%.
D’altra parte, esistono situazioni legittime, in cui cioè il ripristino e/o il recupero del bene danneggiato è davvero impossibile e/o comunque in contrasto con le norme e/o specifiche interne; quindi, come si può distinguere il caso in cui si è di fronte a pretese indebite rispetto a quello in cui le richieste sono legittime?
La risposta è abbastanza semplice, e paradossalmente ci vengono in aiuto proprio le norme di qualità; sarà sufficiente infatti farsi consegnare una copia ufficiale (si dice “a distribuzione controllata”) del manuale di qualità del reclamante, e verificare i seguenti punti:
- Norme e specifiche di riferimento, dove sono elencate le caratteristiche dei materiali, dei semi-lavorati, le qualifiche dei fornitori ecc, dalle quali si potranno stabilire i criteri di accettabilità da applicarsi.
- Definizione delle non-conformità, che elencano con precisione cosa viene considerato accettabile e cosa no, e quali sono i metodi di indagine applicabili. In particolare, questo, nel caso di macchinari ecc, per i quali i manuali descrivono i collaudi da svolgere ed i criteri di valutazione da applicare.
- Gestione delle non conformità, dove vengono descritte le varie anomalie/non conformità, e le azioni da intraprendere al fine di eliminare le stesse. Vengono in tale ambito descritte anche le specifiche tecniche da applicare, gli eventuali collaudi da effettuare e tutto ciò che deve essere conservato e certificato al fine dell’eliminazione anche documentale della non conformità.
Infine, se vorremo toglierci ogni dubbio, sarà utile dare un’occhiata in giro nei reparti operativi e soprattutto nei magazzini. Infatti, e questo sì che è un requisito di tipo generale, le specifiche di qualità devono prevedere l’identificazione e la segregazione delle materie prime e dei prodotti non conformi, che devono essere stoccati a parte e chiaramente evidenziati con opportune etichette al fine di impedirne l’uso accidentale.
Nel nostro caso specifico, per esempio, se ci verrà contestato un danno a del materiale ma, guardandoci in giro, vediamo altro materiale in simili condizioni non debitamente segregato, ne dovremo dedurre che:
a) il danno reclamato non viene considerato così irrecuperabile come preteso
b) la normativa di qualità non viene osservata in modo così puntuale come si vuole far credere
In conclusione, quindi, dovremo tenere ben presente i seguenti concetti principali:
a) La normativa di qualità (ISO 9000 e equivalenti) non certifica livelli qualitativi né assegna patenti di bontà e/o affidabilità nel senso comune dei termini.
b) Non è per nulla vero che chi ha sviluppato un sistema di qualità secondo ISO produca manufatti migliori di chi tali sistemi non ha implementato. Semmai il primo potrà produrre secondo un livello qualitativo più costante, ma neppure questo è vero in assoluto.
c) Tutti i sistemi di qualità devono prevedere la gestione delle non conformità, ed in tale ambito devono essere definite le modalità di ripristino.
Ovvio che, a seconda delle tipologie di danno e delle relative specifiche di correzione della non conformità, si presenteranno spese di recupero parziale o totale che potranno a volte rendere tali operazioni non convenienti da un punto di vista economico.
E qui ritorniamo alle competenze specifiche del perito. Ma questo è un discorso che conosciamo molto bene.
Umberto Arnulfo
Negli ultimi anni, specie con lo svilupparsi della tecnologia aeronautica, nucleare e poi dell’alta tecnologia in genere, il concetto di “qualità” ha subito una trasformazione radicale che ne ha col tempo snaturato e completamente stravolto il senso; o meglio, che ne ha ricondotto il senso al suo vero significato originale, intrinseco.
Infatti, la necessità di garantire in ogni istante la “tracciabilità” di un manufatto (in termini di genesi produttiva e/o di “vita” operativa) nonché quella di individuare in ogni istante (genesi e vita) i vari interventi svolti, gli esecutori materiali di tali interventi e gli ideatori/controllori degli stessi, ha portato alla redazione di specifiche operative che sono col tempo assurte alla dignità di specifica tecnica in un primo stadio e infine di vera e propria normativa, prima nazionale e poi internazionale.
L’impostazione tipicamente anglosassone della questione, unitamente ad una evidente e forse strumentale disinformazione dell’utente finale, ha portato una notevole confusione sul significato che oggi viene assunto, in ambito industriale, dal termine qualità. Anzi, riallacciandoci a quanto accennato nelle righe precedenti, si potrebbe dire che proprio grazie a quanto sopra il termine “qualità” si è riappropriato del proprio significato etimologico originale; ma questo la maggior parte degli utenti (e degli operatori) non lo sanno. Infatti la qualità non ha un significato di per sé positivo, ma può essere di volta in volta ottima, buona, mediocre, scadente, pessima e, in sostanza, assumere tutte le aggettivazioni che corrono dalla magnificenza al livello più infimo.
Nel caso della normativa di qualità avviene piu’ o meno lo stesso; un manufatto sarà prodotto “in qualità” non quando corrisponderà, ad esempio, a elevati requisiti di affidabilità, ma quando sarà stato prodotto secondo processi ben identificabili e rintracciabili nel tempo, e quando le sue caratteristiche finali corrisponderanno a requisiti che vengono stabiliti, verificati e garantiti dal costruttore stesso. Sulla base di ciò, pertanto, saranno considerati allo stesso modo prodotti “in qualità” sia manufatti di caratteristiche elevate ed altissima affidabilità, sia prodotti di scarse caratteristiche ed affidabilità, purchè entrambi siano stati realizzati in conformità a normative e specifiche tecniche interne, preventivamente codificate e certificate dal rispettivo costruttore. In parole povere, se io produco qualcosa di molto scadente, ma l’ho scritto e dichiarato prima nel mio manuale interno, il mio manufatto sarà stato prodotto “in qualità” al pari di un altro manufatto realizzato, per esempio, in conformità con le piu’ alte ed affidabili tecnologie e con materiali di primissimo livello.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda le materie prime e/o i semilavorati che vengono acquistati da una industria per la propria produzione; tali materie prime e/o semilavorati potranno avere indifferentemente caratteristiche elevate, mediocri, scadenti, ecc. Non importa, purchè il tutto sia conforme a quanto scritto nel manuale interno “di qualità”. Come dire, non importa che tu faccia una schifezza, purchè tu lo scriva….”. Questo, ovviamente, è un paradosso, ma non è molto lontano dalla verità. Infatti, a garantire ed imporre standard minimi di sicurezza, ad esempio, non sono i criteri di qualità, ma le norme internazionali e nazionali, che con il concetto di “qualità” sopra esposto hanno poco o nulla da spartire.
In ultimo, giova ricordare che la normativa di qualità prevede la non conformità di un manufatto (o di una materia prima, e/o di un semi-lavorato) e la gestione di tale non conformità. Il che vuol dire, in termini poveri, che se qualcosa non risponde inizialmente alle caratteristiche codificate è prevista l’adozione di quelle misure intese a ripristinarne la corrispondenza. (in pratica, per esempio, se una saldatura di un recipiente in pressione viene “fatta male”, questa potrà essere riparata purchè la riparazione venga effettuata secondo modalità codificate nei manuali interni operativi, e sempre che di tale riparazione venga conservata documentazione).
Questa lunga disquisizione introduttiva, peraltro forzatamente farraginosa ed incompleta, per affrontare una problematica che negli ultimi anni ha assunto una importanza sempre maggiore; la pretesa impossibilità di recuperare in modo soddisfacente beni e manufatti soggetti a sinistro e/o avaria.
Nella comune esperienza peritale, infatti, da un po’ di tempo veniamo in contatto con tale realtà relativamente nuova. Sempre piu’ spesso, infatti, ci troviamo in situazioni nelle quali il ricevitore/assicurato/danneggiato rifiuta qualsiasi ipotesi di riparazione e/o recupero del materiale coinvolto in una avaria, e questo proprio invocando il proprio “Sistema di Qualità”.
E così accade che un coil di acciaio zincato venga considerato totalmente inidoneo anche se interessato da bagnamento solo parziale, che una macchina utensile venga considerata non ripristinabile a nuovo anche se danneggiata solo in alcuni componenti, e che un manufatto elettronico venga rifiutato solo perché ha subito un contraccolpo senza peraltro presentare alcuna anomalia. Il tutto in nome del “Manuale interno di Qualità”.
Peraltro, se proviamo a chiedere tale manuale, vedremo quasi sempre che tali “condanne” non sono poi così categoriche e, in molti casi, neppure previste.
In effetti si tende a mascherare dietro pretese questioni di qualità tipologie che sono più simili al “danno temuto” che altro; ma sappiamo bene che il semplice danno temuto non è risarcibile.
In altri casi, l’impossibilità di recupero è conseguente alla scarsa volontà del danneggiato che, sapendo che il danno verrà risarcito dall’assicuratore, non ha intenzione di sobbarcarsi il fastidio del recupero della merce, e quindi ne decreta la totale non-conformità abbandonando il bene all’assicuratore.
Peraltro, giova ricordare, il Codice Civile stabilisce l’obbligo del danneggiato di contenere al minimo l’entità del danno, e pertanto tale attitudine si scontra con la legge. Inoltre, sempre da un punto di vista di procedura civile, il nostro codice non prevede la valutazione del danno sulla base della vendita del bene danneggiato (cosa invece comune nei paesi anglosassoni), ma richiede comunque la valutazione peritale dell’entità del danno, ed il giudizio quindi di congruità del valore recuperato mediante tale vendita.
Giova infatti ricordare che, procedendo alla vendita al meglio del manufatto e/o del bene danneggiato, quasi mai il danno verrà limitato al minimo; è comune esperienza che tale vendita infatti ne comporta automaticamente un deprezzamento notevole e sostanziale, quasi sempre ingiustificato in relazione allo stato attuale della merce. Solo a titolo di esempio, infatti, pensiamo ad una automobile di marca Caio (per non fare pubblicità); venduta dal concessionario di Caio la macchina ha il suo valore di listino, mentre se a venderla fossi io, ad esempio, la stessa macchina avrebbe un valore di molto inferiore, spesso al di sotto del 50%.
D’altra parte, esistono situazioni legittime, in cui cioè il ripristino e/o il recupero del bene danneggiato è davvero impossibile e/o comunque in contrasto con le norme e/o specifiche interne; quindi, come si può distinguere il caso in cui si è di fronte a pretese indebite rispetto a quello in cui le richieste sono legittime?
La risposta è abbastanza semplice, e paradossalmente ci vengono in aiuto proprio le norme di qualità; sarà sufficiente infatti farsi consegnare una copia ufficiale (si dice “a distribuzione controllata”) del manuale di qualità del reclamante, e verificare i seguenti punti:
- Norme e specifiche di riferimento, dove sono elencate le caratteristiche dei materiali, dei semi-lavorati, le qualifiche dei fornitori ecc, dalle quali si potranno stabilire i criteri di accettabilità da applicarsi.
- Definizione delle non-conformità, che elencano con precisione cosa viene considerato accettabile e cosa no, e quali sono i metodi di indagine applicabili. In particolare, questo, nel caso di macchinari ecc, per i quali i manuali descrivono i collaudi da svolgere ed i criteri di valutazione da applicare.
- Gestione delle non conformità, dove vengono descritte le varie anomalie/non conformità, e le azioni da intraprendere al fine di eliminare le stesse. Vengono in tale ambito descritte anche le specifiche tecniche da applicare, gli eventuali collaudi da effettuare e tutto ciò che deve essere conservato e certificato al fine dell’eliminazione anche documentale della non conformità.
Infine, se vorremo toglierci ogni dubbio, sarà utile dare un’occhiata in giro nei reparti operativi e soprattutto nei magazzini. Infatti, e questo sì che è un requisito di tipo generale, le specifiche di qualità devono prevedere l’identificazione e la segregazione delle materie prime e dei prodotti non conformi, che devono essere stoccati a parte e chiaramente evidenziati con opportune etichette al fine di impedirne l’uso accidentale.
Nel nostro caso specifico, per esempio, se ci verrà contestato un danno a del materiale ma, guardandoci in giro, vediamo altro materiale in simili condizioni non debitamente segregato, ne dovremo dedurre che:
a) il danno reclamato non viene considerato così irrecuperabile come preteso
b) la normativa di qualità non viene osservata in modo così puntuale come si vuole far credere
In conclusione, quindi, dovremo tenere ben presente i seguenti concetti principali:
a) La normativa di qualità (ISO 9000 e equivalenti) non certifica livelli qualitativi né assegna patenti di bontà e/o affidabilità nel senso comune dei termini.
b) Non è per nulla vero che chi ha sviluppato un sistema di qualità secondo ISO produca manufatti migliori di chi tali sistemi non ha implementato. Semmai il primo potrà produrre secondo un livello qualitativo più costante, ma neppure questo è vero in assoluto.
c) Tutti i sistemi di qualità devono prevedere la gestione delle non conformità, ed in tale ambito devono essere definite le modalità di ripristino.
Ovvio che, a seconda delle tipologie di danno e delle relative specifiche di correzione della non conformità, si presenteranno spese di recupero parziale o totale che potranno a volte rendere tali operazioni non convenienti da un punto di vista economico.
E qui ritorniamo alle competenze specifiche del perito. Ma questo è un discorso che conosciamo molto bene.
Umberto Arnulfo